Cannabinoidi e Cancro: i meccanismi con cui la cannabis uccide le cellule tumorali

24 Maggio 2025

REDAZIONE

Negli ultimi anni si è accumulata una mole significativa di evidenze sul potenziale anticancro dei cannabinoidi – i composti attivi della Cannabis sativa – oltre ai loro noti effetti palliativi sui sintomi oncologici. Numerosi studi preclinici (in vitro e su modelli animali) hanno dimostrato che molecole come il Δ⁹-tetraidrocannabinolo (THC) e il cannabidiolo (CBD) possono ostacolare la progressione tumorale a più livelli . In particolare, l’effetto più ricorrente osservato è la capacità di indurre la morte programmata delle cellule tumorali (apoptosi) e di inibire la proliferazione delle stesse; inoltre, in esperimenti su animali si è visto che i cannabinoidi possono ridurre la formazione di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi) e bloccare i processi di invasione e metastasi da parte del tumore . Questi risultati preclinici hanno posto le basi per i primi studi clinici volti a valutare sicurezza ed efficacia dei cannabinoidi come agenti anticancro . Va comunque sottolineato che, ad oggi, le evidenze di un effetto antitumorale efficace nell’uomo sono assenti: gli studi che mostrano attività anticancro dei cannabinoidi restano confinati al modello preclinico e manca una dimostrazione clinica definitiva . Nonostante ciò, l’interesse scientifico è vivissimo, alimentato da centinaia di ricerche che suggeriscono come diversi cannabinoidi possano innescare meccanismi molecolari multipli in grado di uccidere selettivamente le cellule tumorali senza colpire quelle sane . Di seguito passeremo in rassegna i principali di questi meccanismi – dall’induzione del “suicidio” cellulare all’inibizione dell’angiogenesi – basandoci sui risultati di studi in vitro, su modelli animali e sulle dichiarazioni di esperti biologi molecolari attivi in questo campo.

Induzione dell’apoptosi: il “suicidio” delle cellule tumorali

L’apoptosi è una forma di morte cellulare programmata in cui la cellula “decide” di autodistruggersi attivando specifici enzimi (caspasi) e vie di segnalazione interne. Diversi studi hanno documentato che i cannabinoidi possono innescare l’apoptosi nelle cellule tumorali. Ad esempio, in colture di cellule di glioma (tumore cerebrale), il THC e altri cannabinoidi inducono morte apoptotica attraverso la stimolazione dei recettori cannabinoidi di tipo 1 e 2 (CB₁/CB₂) espressi sulle cellule tumorali . L’attivazione di questi recettori avvia una cascata di segnali pro-morte: studi pionieristici hanno scoperto che il THC stimola la sintesi di nuovo ceramide, uno sfingolipide pro-apoptotico, all’interno delle cellule tumorali . L’accumulo di ceramide funge da messaggero che altera profondamente il metabolismo cellulare, stressando il reticolo endoplasmatico (la fabbrica proteica della cellula) e attivando geni associati allo stress cellulare . In particolare, è stato osservato un aumento della proteina p8 (nota anche come NUPR1), un regolatore trascrizionale legato alla risposta a stress e danno cellulare . La cascata attivata da p8 include fattori come ATF4 e CHOP (indicatori di stress del reticolo endoplasmatico) e porta all’inibizione di vie pro-survival, in primis la proteina chinasi AKT e il complesso mTOR . Il risultato finale di questi eventi è l’attivazione delle cascate caspasi-dipendenti che conducono la cellula tumorale all’apoptosi . È importante notare che l’apoptosi indotta dai cannabinoidi è stata documentata in numerosi tipi di cancro, includendo non solo i gliomi ma anche cellule di cancro del seno, del polmone, della pelle, leucemie e altri .

Un aspetto di grande interesse – evidenziato dalla biologa molecolare Cristina Sánchez dell’Università Complutense di Madrid – è che i cannabinoidi sembrano colpire in modo selettivo le cellule maligne risparmiando quelle sane. “Uno dei vantaggi dei cannabinoidi, o dei farmaci a base di cannabinoidi, è che essi mirano specificamente alle cellule tumorali. Non hanno alcun effetto tossico sulle cellule normali non tumorali”, spiega la dott.ssa Sánchez, sottolineando come ciò rappresenti un enorme vantaggio rispetto alla chemioterapia tradizionale che colpisce indiscriminatamente sia cellule tumorali che sane . Nei suoi studi di laboratorio su cellule di tumore cerebrale, il suo team ha osservato che dopo trattamento con THC le cellule cancerose “si stavano come suicidando”, segno evidente dell’attivazione di apoptosi, mentre le cellule sane circostanti restavano vitali . Questo fenomeno è stato riportato anche da altri ricercatori: in uno studio recensito dall’American Cancer Society, viene confermato che nei modelli animali i cannabinoidi provocano la morte delle cellule cancerose (senza danneggiare quelle ‘buone’), bloccano la crescita delle cellule tumorali e ne arrestano il ciclo di replicazione . In sintesi, l’induzione dell’apoptosi è uno dei meccanismi chiave attraverso cui i composti della cannabis possono uccidere le cellule tumorali, agendo come una sorta di “interruttore del suicidio” che le cellule maligne attivano in risposta a questi agenti.

Stimolazione dell’autofagia e stress cellulare

Spesso l’apoptosi indotta dai cannabinoidi è strettamente legata a un altro processo cellulare chiamato autofagia. L’autofagia è un meccanismo tramite cui la cellula degrada e ricicla componenti al proprio interno, solitamente attivato in condizioni di stress o carenza di nutrienti. In contesto tumorale, però, un’eccessiva autofagia può contribuire alla morte cellulare. Molte ricerche hanno mostrato che i cannabinoidi attivano un’autofagia massiva nelle cellule cancerose, che funge da preludio all’apoptosi. In altre parole, l’autofagia indotta dai cannabinoidi sembra essere un evento a monte che prepara il terreno al collasso finale della cellula tumorale. Ad esempio, in cellule di glioma, pancreas e carcinoma epatico è stato evidenziato che bloccare l’autofagia impedisce la successiva apoptosi indotta dai cannabinoidi, mentre al contrario bloccare direttamente l’apoptosi non evita la morte cellulare perché le cellule rimangono intrappolate in uno stato autofagico letale . Ciò indica che l’autofagia è un passaggio critico e iniziale nel meccanismo di uccisione cellulare mediato dai cannabinoidi.

Il legame tra autofagia e apoptosi in risposta ai cannabinoidi è riconducibile, come accennato, all’intenso stress del reticolo endoplasmatico (ER) causato da queste molecole. Il reticolo endoplasmatico, quando sovraccaricato di proteine mal ripiegate a seguito dell’azione dei cannabinoidi (complice l’accumulo di ceramide di cui sopra), attiva l’“allarme” cellulare noto come risposta a proteine mal ripiegate (UPR). Questa risposta coinvolge fattori come ATF4 e CHOP, che oltre a favorire l’apoptosi promuovono l’autofagia come tentativo estremo della cellula di ripristinare l’equilibrio . In molte cellule tumorali trattate con THC o CBD, si osserva la formazione di numerosi autofagosomi – vescicole tipiche dell’autofagia – seguita dalla degradazione di componenti cellulari essenziali e dal conseguente arresto delle funzioni vitali della cellula.

Un esempio notevole proviene da studi sul cancro al seno: il CBD ha dimostrato di indurre una forma di morte che combina apoptosi e autofagia nelle cellule di carcinoma mammario. In queste cellule, il CBD attiva geni come DUSP1 che fungono da mediatori sia dell’autofagia che dell’apoptosi, portando a un drastico calo della vitalità cellulare . Analogamente, in modelli di melanoma (tumore della pelle), un estratto di olio di cannabis ricco in cannabinoidi ha spinto le cellule maligne ad avviare l’autofagia e successivamente l’apoptosi, un duplice colpo letale che ha fatto parlare di “suicidio cellulare” indotto. Va evidenziato che l’attivazione dell’autofagia da parte dei cannabinoidi coinvolge spesso recettori non cannabinoidi: studi recenti suggeriscono infatti che il CBD, ad esempio, esercita molti dei suoi effetti attraverso recettori della famiglia TRP (recettori vanilloidi come TRPV2 e TRPV4), i quali, una volta stimolati, scatenano segnali di stress ossidativo e depolarizzazione mitocondriale culminanti in autofagia e morte cellulare . Questi recettori TRP fungono da sensori di stress cellulare e, attivati dal CBD, provocano un aumento di ROS (specie reattive dell’ossigeno) e il simultaneo abbassamento di attività di vie pro-survival come PI3K/AKT/mTOR, facilitando così l’innesco dell’autofagia letale . In sintesi, l’autofagia rappresenta un secondo meccanismo cruciale: i cannabinoidi forzano le cellule tumorali a “divorare se stesse dall’interno”, contribuendo in maniera determinante alla loro eliminazione.

Blocco della proliferazione e arresto del ciclo cellulare

Oltre a indurre la morte delle cellule tumorali, i composti della cannabis interferiscono con la capacità delle cellule maligne di proliferare e dividersi. Numerosi esperimenti documentano un marcato effetto antiproliferativo dei cannabinoidi su colture di cellule di cancro . Questo effetto si manifesta spesso come arresto del ciclo cellulare: le cellule tumorali trattate con THC o CBD rimangono bloccate in specifiche fasi del ciclo (ad esempio in fase G₁, impedendo l’ingresso in sintesi del DNA) e perdono la capacità di moltiplicarsi . Dal punto di vista molecolare, diversi bersagli sono coinvolti. Una via comune è di nuovo l’inibizione della proteina AKT (nota anche come PKB), una chinasi che in condizioni normali favorisce la crescita e la sopravvivenza cellulare. Bloccando AKT, i cannabinoidi causano il collasso delle vie pro-proliferative: ad esempio in cellule di carcinoma mammario e di melanoma si è osservato che l’inibizione di AKT mediata da cannabinoidi porta a un accumulo del soppressore p21 e di altre proteine che fermano il ciclo cellulare, nonché a una ridotta fosforilazione (quindi attivazione) dei fattori pro-crescita . Con AKT bloccato, viene disattivato anche il noto pathway mTOR (un sensore centrale del metabolismo e della crescita); ciò induce a cascata un decremento di proteine come la ciclina D1, necessaria per la progressione del ciclo cellulare . In parallelo, i cannabinoidi possono modulare l’attività di recettori nucleari come PPARγ: il CBD, in particolare, è risultato aumentare l’attività trascrizionale di PPARγ , un fattore che regola la differenziazione e che, attivato, può favorire lo stop proliferativo e l’avvio dell’apoptosi in cellule tumorali.

Questi effetti antiproliferativi non solo limitano la crescita del tumore, ma possono potenziare altre terapie. Una revisione scientifica recente sottolinea che THC e CBD, usati in combinazione con farmaci chemioterapici classici (come cisplatino, gemcitabina o paclitaxel), aumentano la suscettibilità delle cellule tumorali alla chemio stessa: i cannabinoidi modulano vie chiave del ciclo cellulare e dell’apoptosi, rendendo le cellule cancerose più prone a essere uccise dalla chemioterapia . In pratica, bloccando il ciclo in una fase vulnerabile e indebolendo i sistemi di sopravvivenza interna della cellula tumorale, THC e CBD sinergizzano con i farmaci convenzionali inducendo un maggior danno. Non a caso, alcuni trial clinici combinati sono in corso (ad es. nel glioblastoma) per valutare se l’aggiunta di cannabinoidi ai protocolli standard migliora la risposta terapeutica . Sebbene si attendano conferme cliniche robuste, il concetto di usare i cannabinoidi per mantenere le cellule tumorali “ferme e vulnerabili” rappresenta una promettente strategia complementare.

Inibizione di angiogenesi e metastasi

Un tumore, per crescere oltre una certa dimensione, necessita di reclutare nuovi vasi sanguigni che lo riforniscano di ossigeno e nutrienti – un processo detto angiogenesi tumorale. Inoltre, per invadere altri tessuti e formare metastasi, le cellule cancerose devono migrare, infiltrare i tessuti circostanti e entrare nei vasi sanguigni o linfatici. I cannabinoidi sembrano interferire anche con queste fasi cruciali della progressione tumorale. Studi in vivo hanno mostrato che la somministrazione di THC o estratti di cannabis ai modelli murini di cancro riduce la densità di vasi sanguigni all’interno del tumore, rendendo la rete vascolare tumorale più scarsa, sottile e “normalizzata” (vasi più maturi e meno permeabili) . Ciò è stato collegato a una diminuzione significativa dei livelli del fattore pro- angiogenetico VEGF (vascular endothelial growth factor) e di altri mediatori angiogenici nei tumori trattati con cannabinoidi . In altre parole, i composti della cannabis affamano il tumore, bloccando sul nascere la creazione di nuovi vasi. Un rapporto finanziato dal Dipartimento della Salute degli USA ha concluso che i principi attivi della marijuana sono in grado di “stoppare lo sviluppo dei vasi sanguigni necessari ai tumori per crescere” . Questo stesso rapporto ha evidenziato che l’azione dei cannabinoidi si concentra sulle cellule malate, proteggendo al contempo quelle sane, e che addirittura in presenza di chemioterapia convenzionale i cannabinoidi mostrano un effetto potenziatore del trattamento .

Parallelamente all’effetto anti-angiogenetico, i cannabinoidi riducono la capacità invasiva delle cellule tumorali. In vari modelli sperimentali, il trattamento con THC/CBD ha portato a una diminuzione dell’espressione di enzimi degradativi come le metaloproteinasi (MMP) – ad esempio MMP-2 – che le cellule cancerose utilizzano per erodere la matrice extracellulare e farsi strada nei tessuti . Inoltre, sono state osservate alterazioni nella dinamica del citoscheletro e nella capacità migratoria: cellule di carcinoma del polmone e del colon esposte a cannabinoidi mostrano minore motilità e minore adesione, segno di un indebolimento del loro potenziale metastatico . Complessivamente, come afferma una recente review, THC, CBD e anche altri fitocannabinoidi meno noti (es. cannabigerolo, CBG) “mostrano potenzialità anticancerogene promettenti attraverso vari meccanismi, quali induzione di apoptosi, stimolazione dell’autofagia, arresto del ciclo cellulare, effetto anti- proliferativo, anti-angiogenico e inibizione delle metastasi”. Tali effetti combinati portano quindi non solo alla morte della cellula tumorale, ma anche a contenere l’estensione del tumore nel suo microambiente e a impedirgli di disseminarsi a distanza.

Prospettive cliniche e pareri degli esperti

Viste le evidenze sopra descritte, la comunità scientifica sta esplorando attivamente la possibilità di tradurre questi risultati in terapie per i pazienti oncologici. Studi clinici preliminari sono stati avviati in ambito di tumori aggressivi: ad esempio, nel glioblastoma multiforme (un tumore cerebrale altamente maligno) sono in corso trial che combinano un estratto di THC+CBD (nabiximols, noto come Sativex) con la chemio e radioterapia standard, per valutare se la sopravvivenza dei pazienti migliora. Analogamente, altri studi clinici iniziali stanno esaminando l’impiego di cannabinoidi in tumori come il cancro al pancreas e il melanoma, dopo che i risultati su modelli animali hanno mostrato riduzioni della crescita tumorale e induzione di morte cellulare programmata anche in questi contesti. L’obiettivo dichiarato dei ricercatori è di confermare in ambito clinico quello che oltre centinaia di studi preclinici hanno già suggerito, ovvero che diversi cannabinoidi possono diventare agenti antitumorali efficaci e meno tossici dei trattamenti convenzionali . Come osserva la revisione di Castle et al. (2025), esiste già un sorprendente consenso scientifico sul potenziale anticancro della cannabis: analizzando con metodi di “sentiment analysis” più di 10.000 pubblicazioni sull’argomento, il 75% di esse supporta l’idea che la cannabis possa migliorare gli esiti oncologici (sia nei sintomi che sull’andamento della malattia) contro un 25% di studi neutrali o negativi . Ciò include accordo sul fatto che “la cannabis ha il potenziale di combattere direttamente le cellule tumorali stesse, uccidendole e fermandone la diffusione” . Questa convergenza di risultati è insolita per un tema così controverso e incoraggia ulteriormente a proseguire con studi rigorosi.

Allo stesso tempo, molti esperti mantengono un approccio cauto. Il noto oncologo Donald Abrams ha dichiarato di essere scettico sull’idea che la cannabis possa da sola curare il cancro, pur riconoscendo i benefici palliativi sui sintomi . Anche l’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) rimarca che “gli studi i cui risultati hanno dimostrato un effetto antitumorale dei cannabinoidi sono ancora allo stadio preclinico e… non esistono dimostrazioni negli esseri umani” . In altre parole, la comunità scientifica concorda nel ritenere che servano ulteriori ricerche e trial clinici controllati per definire in modo chiaro l’efficacia e la sicurezza di trattamenti a base di cannabinoidi nei malati di cancro. Gli ostacoli non sono solo scientifici ma anche regolatori (basti pensare alle restrizioni legali che hanno a lungo frenato la ricerca sulla cannabis).

Tuttavia, alla luce dei meccanismi molecolari delineati – apoptosi tumorale selettiva, autofagia letale, blocco di vascolarizzazione e metastasi – i cannabinoidi emergono come promettenti alleati nella lotta al cancro. Come affermano i ricercatori in un recente rapporto pubblicato su Discover Oncology, “approfondendo la comprensione dei meccanismi d’azione dei cannabinoidi e delle loro interazioni con le cellule tumorali, potremo sfruttarne al meglio il potenziale terapeutico in oncologia” .

Le ricerche condotte finora dipingono un quadro chiaro: i composti della cannabis esercitano effetti antitumorali multi-modali sulle cellule cancerose. Di seguito riassumiamo i principali meccanismi individuati:

Induzione dell’apoptosi (suicidio cellulare) – I cannabinoidi attivano il programma di morte delle cellule tumorali, avviando cascate di segnali interni (ceramide, caspasi, ecc.) che portano le cellule maligne all’autodistruzione . Questo avviene in modo selettivo, risparmiando le cellule sane circostanti .

Stimolazione dell’autofagia pro-morte – THC, CBD e altri composti inducono un’autofagia massiva nelle cellule tumorali, cioè un’auto-degradazione dei loro componenti, che precede ed è necessaria per l’apoptosi . Lo stress del reticolo endoplasmatico e la produzione di ROS giocano un ruolo chiave in questo processo.

Arresto della proliferazione e del ciclo cellulare – I cannabinoidi bloccano la crescita delle cellule cancerose, fermandone il ciclo replicativo in fasi specifiche . Ciò avviene tramite l’inibizione di vie pro-survival (AKT/mTOR) e la modulazione di fattori del ciclo (cicline, CDK), rendendo le cellule incapaci di dividersi ulteriormente .

Inibizione dell’angiogenesi tumorale – Queste molecole riducono la secrezione di fattori pro- angiogenici (es. VEGF), impedendo la formazione di nuovi vasi sanguigni attorno al tumore . Ne risulta un tumore “affamato”, con vasi meno numerosi e funzionali .

Blocco di invasione e metastasi – Il THC/CBD attenua la capacità invasiva delle cellule neoplastiche, sopprimendo enzimi come le metalloproteinasi e alterando la motilità cellulare. In modelli animali ciò si traduce in una minore incidenza di metastasi a distanza .

In conclusione, THC, CBD e altri cannabinoidi mostrano un ampio spettro di azioni sui tumori: attaccano le cellule maligne su più fronti, dai segnali interni di sopravvivenza alle interazioni col microambiente tumorale. Questo spiega perché in modelli sperimentali si osservano riduzioni significative della crescita tumorale e perfino regressioni . Mentre la ricerca clinica è ancora ai primi passi, l’insieme di evidenze precliniche delinea i cannabinoidi come potenziali agenti antitumorali innovativi e complementari rispetto alle terapie esistenti. Il prossimo obiettivo sarà validare queste scoperte nell’uomo attraverso studi rigorosi: solo allora sapremo se la cannabis potrà davvero entrare nell’armamentario terapeutico contro il cancro come trattamento mirato per uccidere le cellule tumorali.