Le Sisters of the Valley nascono in California nel 2014 da un’idea di Christine Meeusen, in arte Sister Kate. Meeusen, ex dirigente aziendale presso J.P. Morgan, attraversò una crisi personale dopo aver scoperto che il marito conduceva una doppia vita e le sottraeva denaro. In difficoltà economiche, decise di reinventarsi nel nascente settore della cannabis terapeutica. Durante il movimento Occupy Wall Street del 2011, Christine iniziò a presentarsi alle proteste vestita da suora cattolica – un gesto satirico in risposta a decisioni politiche come quella di classificare la pizza come verdura nelle mense scolastiche. Fu così soprannominata dai manifestanti “Sister Occupy”, scoprendo il potere comunicativo dell’abito monastico nell’attrarre attenzione su questioni sociali.
Dopo quell’esperienza, Christine Meeusen decise di unire attivismo, spiritualità e imprenditorialità: fondò prima un collettivo non-profit di cannabis nel 2010 per assistere pazienti terminali, e successivamente diede vita alle Sisters of the Valley nel raccolto della Luna del 2014, sviluppando le prime linee di prodotti a base di CBD (cannabidiolo). Insieme a un’altra pioniera, Darcy Johnson (Sister Darcy), avviò l’“ordine” con appena due membri e 12 piantine di cannabis coltivate in serra. La sede fu stabilita a Merced, nella Central Valley californiana, zona agricola impoverita ma fertile, dove la canapa cresce accanto a meleti e vigneti soleggiati.
Nonostante l’umile inizio, il collettivo crebbe rapidamente. Nel primo anno (2015) fatturò circa 60.000 dollari in vendite di prodotti CBD. Le weed nuns – come subito ribattezzate dai media – sfruttarono il clamore mediatico per farsi conoscere, specialmente dopo che la piattaforma Etsy le bandì nel 2016 costringendole ad aprire un proprio sito web di e-commerce. Nel 2017 il gruppo contava già 7 “sorelle” attive nella piccola comunità di Merced, con vendite annue salite a circa 750.000 dollari. Le Sisters dovettero però affrontare anche ostacoli: nel 2015 il consiglio comunale di Merced provò a vietare coltivazione e vendita di cannabis in città, mettendo a rischio la loro attività (il divieto fu poi annullato). In risposta, trasferirono le operazioni appena fuori dai confini cittadini, acquistando una fattoria nella contea dove potevano legalmente coltivare un piccolo numero di piante.
Il racconto peculiare delle “suore della marijuana” continuò ad attirare attenzione globale. Nel 2018 uscì il documentario “Breaking Habits” del regista Robert Ryan, che narrava la trasformazione di Christine Meeusen in Sister Kate e la lotta del collettivo tra cartelli locali e leggi restrittive. Da allora, la rete delle Sisters of the Valley ha iniziato a espandersi oltre la California: Sister Kate rimane la figura centrale (definita “a capo dell’azienda” dal collettivo stesso), ma nuove sorelle si sono unite dagli Stati Uniti e da altri paesi. Nel 2021 Sister Kate dichiarava 22 consorelle e 8 “fratelli” affiliati in tutto il mondo. Sono nati capitoli internazionali come quello in Messico, fondato da Sister Camilla nel 2018, e tentativi di stabilire enclavi in Nuova Zelanda e Canada (talora frenati dalle normative locali). In pochi anni, le Sisters of the Valley si sono evolute da una piccola impresa artigianale a un fenomeno culturale globale, senza però rinunciare alle radici comunitarie e allo spirito originario.
La missione dichiarata delle Sisters of the Valley è “guarire il mondo attraverso la medicina vegetale”, portando conforto a chi soffre grazie ai rimedi a base di CBD. Si definiscono attiviste spirituali: praticano una forma di spiritualità eclettica e anticonformista, non affiliata ad alcuna religione tradizionale. “Siamo contrarie alla religione organizzata, quindi non siamo una religione” afferma Sister Kate, spiegando che il collettivo si considera una rinascita delle antiche Beguine, riprendendo pratiche pre-cristiane orientate alla cura e alla comunità. Le Beguine erano donne medievali che vivevano in comunità religiose autonome fuori dal controllo della Chiesa, e le Sisters of the Valley vedono in esse un antecedente storico del proprio modello.
Sebbene indossino l’abito monastico e usino l’appellativo di sorelle, le Sisters of the Valley non seguono la dottrina cattolica né alcun voto ecclesiastico formale. La loro “religione” può essere descritta come New Age: venerano Madre Terra e lo spirito delle piante, fondendo elementi di ambientalismo e ritualità indigena. La cannabis è al centro della loro fede: il collettivo parla scherzosamente di una “Santa Trinità” costituita proprio dalla pianta di marijuana – in particolare dalla varietà canapa ricca di CBD e povera di THC. “Non c’è nulla che il CBD non possa curare”, afferma Sister Kate, definendo questa molecola un dono di Madre Terra dai potenti effetti terapeutici, coltivato da millenni nelle culture indigene. Benché tale affermazione sia iperbolica dal punto di vista scientifico, riflette la fede incrollabile delle Sisters nel potenziale curativo naturale della cannabis.
La vita spirituale del collettivo segue i ritmi della natura. Le sorelle svolgono preghiere e canti insieme, spesso adattando rituali nativi americani o pagani. I cicli lunari scandiscono ogni cosa: dalla semina alla raccolta, fino alle feste di compleanno e alle cerimonie. Ogni mese, all’arrivo della Luna Nuova iniziano un periodo intensivo di produzione di due settimane, che si conclude con la Luna Piena. Durante questa fase, osservano particolari voti autoimposti: un voto di obbedienza alla Luna (cioè rispettare i tempi dettati dai cicli lunari per lavorare), un voto di castità temporanea (astensione dall’attività sessuale durante il periodo rituale, pur senza richiedere celibato permanente) e un voto di ecologia, impegnandosi a “non fare del male” all’ambiente durante la produzione. Sono perlopiù vegetariane e adottano uno stile di vita semplice mentre “creano medicina”, ritenendo che la purezza di corpo e spirito migliori le proprietà curative dei loro rimedi.
La filosofia sociale delle Sisters è intrinsecamente femminista e comunitaria. Sister Kate – descritta come una “femminista vegana in perfetta connessione con i cicli lunari” – ha concepito il collettivo anche per dare autonomia economica alle donne. “Una sorella diventa tale attraverso una relazione commerciale, guadagnando un salario o una commissione – vogliamo crescere così perché vogliamo liberare le donne, non renderle più dipendenti” spiega. Questo approccio pragmatico distingue le Sisters of the Valley da un ordine religioso tradizionale: le sorelle non fanno voto di povertà, anzi lavorano per sostenersi a vicenda. La compassione e il servizio restano valori cardine – spesso parlano di “attivismo compassionevole” – ma vengono coniugati con l’imprenditoria etica. In sostanza, la loro filosofia vede la cura (di sé, degli altri e della Terra), la spiritualità libera e l’emancipazione socio-economica come parti di un unico percorso.
L’attività centrale delle Sisters of the Valley è la coltivazione di canapa e la produzione artigianale di rimedi a base di CBD. Nella loro piccola fattoria di Merced coltivano piante di Cannabis sativa a basso contenuto di THC (entro i limiti legali), che diventano materia prima per una varietà di prodotti erboristici. Tra questi vi sono oli, tinture, pomate, unguenti, capsule e creme infusi di cannabidiolo – tutti preparati a mano seguendo metodi tradizionali. Le sorelle stesse si occupano di ogni fase: dalla potatura dei fiori all’infusione dell’olio di cocco con l’estratto, fino all’imbottigliamento e all’etichettatura.
La produzione avviene rigorosamente in sincronia con le fasi lunari. Ad ogni luna nuova, il collettivo avvia un nuovo lotto di produzione: per circa due settimane, fino alla luna piena, le sorelle lavorano alacremente alla preparazione dei rimedi. Questo calendario è ispirato ai principi dell’agricoltura biodinamica, che attribuisce alla luna influenza sui processi vitali delle piante. Oltre all’aspetto pratico, il ciclo lunare ha per loro un significato rituale. All’inizio di ogni ciclo produttivo, le Sisters svolgono una cerimonia sotto le stelle: bruciano salvia bianca per purificare lo spazio di lavoro, recitano preghiere ringraziando il Creatore e la Madre Dea per averle chiamate a questa missione, e benedicono gli strumenti e gli ingredienti che useranno. Durante la lavorazione, a volte intonano canti o mantra, convinte che l’energia positiva infusa nei preparati ne accresca il potere di guarigione. Un’osservatrice riferisce di Sister Kate che passa un mazzetto di salvia fumante sopra le forniture e “mormora alcune incantazioni” mentre l’estratto di cannabis viene mescolato.
Terminato il periodo di luna piena, le produzioni vengono imbottigliate e confezionate, spesso proprio sotto la luce della luna piena in segno di completamento del ciclo. Da lì, i prodotti sono pronti per essere spediti ai clienti. Fin dagli inizi, le Sisters of the Valley hanno puntato sull’online come canale di vendita: inizialmente tramite un negozio su Etsy, e in seguito attraverso un sito web proprio, nonché piattaforme di artigianato digitale. Questo ha permesso loro di raggiungere acquirenti in tutto il mondo: oggi spediscono i loro prodotti worldwide, ovunque la legge consenta l’importazione di CBD. Tra i loro clienti ci sono malati cronici in cerca di sollievo, persone curiose di rimedi naturali e sostenitori del movimento della cannabis terapeutica.
Oltre alla produzione commerciale, le Sisters svolgono attività collaterali coerenti con la loro missione. Fanno sensibilizzazione sull’uso terapeutico della cannabis partecipando a fiere di settore, rilasciando interviste e diffondendo informazioni online. Hanno una presenza attiva sui social media (Instagram, Facebook, YouTube) dove mostrano scorci della vita quotidiana in fattoria e condividono conoscenze sulle proprietà del CBD. In alcune occasioni tengono workshop e conferenze: ad esempio, Sister Camilla in Messico ha condotto laboratori sui benefici e gli usi della pianta, per educare la comunità locale. Il collettivo vede infatti l’attivismo educativo come parte integrante del proprio lavoro: non si limita a vendere prodotti, ma cerca di “aprire il mondo ai poteri curativi dei doni della natura” secondo la propria visione.
Coerentemente con la loro anima militante, le Sisters of the Valley sostengono anche cause politiche legate alla cannabis. Denunciano il fallimento delle politiche repressive sulla droga e auspicano un approccio incentrato sulla riduzione del danno e la giustizia sociale. In America Latina, ad esempio, le consorelle messicane affermano che la “guerra alla droga” ha portato solo violenza e carcerazioni di massa, e che è ora di “mettere fine a questa stupidità” e restituire la pianta di cannabis al popolo, sottraendola ai narcos. Anche negli Stati Uniti il collettivo ha seguito con interesse (e preoccupazione) le vicende legali: dopo l’elezione di un’amministrazione federale ostile alla cannabis nel 2016, Sister Kate disse provocatoriamente “Trump ci ha messo il fuoco sotto i piedi: la nostra risposta è il Canada”, indicando l’intenzione di aprire un’operazione oltreconfine per tutelarsi. Questa determinazione a trovare spazi di libertà per la loro attività, adattandosi ai diversi contesti normativi, dimostra lo spirito resiliente delle Sisters of the Valley. In sostanza, le loro attività combinano impresa, ritualità e impegno civile in modo insolito ma efficace, puntando a normalizzare l’uso medicinale della cannabis e a creare un microcosmo in cui spiritualità e lavoro convivono.
Fin dalla loro comparsa, le Sisters of the Valley hanno affascinato i media e l’opinione pubblica, incarnando un immaginario fuori dagli schemi. Vestite da suore mentre coltivano marijuana, sono state soprannominate le “weed nuns” (suore della weed) dai giornali e innumerevoli articoli sono stati dedicati a loro in tutto il mondo. Testate prestigiose come Reuters, BBC, The Guardian e Rolling Stone hanno raccontato la loro storia, sottolineandone ora l’aspetto spirituale, ora quello imprenditoriale. Il New Zealand Herald le ha definite ironicamente “Sister Act” in versione cannabis, mentre Business Insider le ha nominate “le donne più chiacchierate del business della marijuana”. Un documentario cinematografico intitolato “Breaking Habits” (un gioco di parole tra “spezzare le abitudini” e habits, termine inglese per “abiti” monastici) è uscito nel 2018, portando sullo schermo la loro vicenda con toni da western moderno – tra suore armate di carabina e coltivazioni illegali – e contribuendo a mitizzarne la figura.
L’impatto culturale del collettivo è significativo su vari fronti. In ambito cannabis, le Sisters of the Valley hanno offerto un nuovo modello narrativo: da consumatrici e produttrici clandestine spesso dipinte come figure marginali, a “suore erbivore” presentate come guaritrici e guardiane di una saggezza antica. Ciò ha aiutato a normalizzare il discorso sulla cannabis terapeutica, mostrando al grande pubblico un volto inaspettato – rassicurante e trasgressivo al tempo stesso – dell’uso della marijuana. Molte persone malate o sofferenti hanno trovato nelle Sisters un simbolo di speranza e solidarietà: delle nonne anti-conformiste che preparano rimedi naturali con devozione. Nella cultura pop, il loro look iconico (velo bianco, occhiali da sole e piantine di cannabis alla mano) è immediatamente riconoscibile e ha ispirato servizi fotografici, meme e perfino idee per serie TV animate, come suggerito scherzosamente dalla stessa Sister Kate.
Naturalmente, non sono mancate le controversie. Ambienti conservatori e religiosi inizialmente hanno storto il naso di fronte a queste finte suore: “Ma non sono vere suore!” è stata un’obiezione frequente. La risposta di Sister Kate è tagliente: “Quando qualcuno dice: ‘Non sono suore vere’, rispondo che ormai non esistono più (le suore). Stanno andando estinte in questo paese”. In effetti, l’età media di una nuova suora cattolica negli USA è altissima (circa 78 anni, ha osservato Kate), segno di una crisi delle vocazioni tradizionali. Le Sisters of the Valley si propongono dunque come una sorta di “nuova congregazione” laica, offrendo spiritualità in forme inedite a chi la cerca al di fuori delle chiese istituzionali. Alcuni credenti si sono sentiti offesi dall’uso dell’abito religioso in questo contesto profano, ma Sister Kate riferisce di aver ricevuto pochissime chiamate d’odio e anzi molti cattolici hanno compreso le loro buone intenzioni. Col tempo, la curiosità e la simpatia verso queste suore alternative hanno prevalso sulle critiche: la loro genuina dedizione a lenire le sofferenze con metodi naturali ha guadagnato rispetto in diverse comunità.
La percezione pubblica varia anche in base al contesto geografico. Negli Stati Uniti, Paese sempre più secolarizzato e con molte regioni pro-cannabis, le Sisters sono spesso viste come un pittoresco caso di women empowerment unito a spirito imprenditoriale. In Messico, invece, dove il collettivo ha iniziato ad operare in modo sommerso, l’immagine di una suora che fuma marijuana è volutamente provocatoria: “in un Paese devastato dalla guerra alla droga e intriso di cristianesimo, l’immagine di una monaca che fuma uno spinello è un atto di ribellione” scrive Al Jazeera. Le Sisters messicane, adottando quell’estetica, lanciano un messaggio forte contro il narcotraffico e l’ipocrisia, sfidando al contempo i tabù religiosi locali.
Sul piano mediatico, le Sisters of the Valley hanno dimostrato un’abile capacità di gestire la propria immagine. Dopo essere state bandite dalla pubblicità su Facebook nei primi tempi, hanno sfruttato PR e passaparola, ottenendo una copertura giornalistica che molte aziende ben più grandi potrebbero invidiare. Hanno posato per servizi fotografici eleganti (ad esempio su Leafly e Wired), mostrando ora il lato devoto e rurale – intente a raccogliere infiorescenze in giardino – ora quello ironico – accendendo joint in abito da suora. Questa rappresentazione plurale ha amplificato il loro messaggio culturale: la sacralità non è appannaggio esclusivo delle religioni organizzate, e una pianta considerata a lungo “demonizzata” può diventare invece strumento di bene e fraternità. Il loro saluto “Blessed be” (che tu sia benedetto) rivolto ai clienti e follower sintetizza questo connubio insolito di spiritualità e attivismo pro-cannabis.
Le Sisters of the Valley si autodefiniscono un ordine monastico laico, ma funzionano nei fatti come un collettivo cooperativo con una forte dimensione familiare. Sister Kate (Christine Meeusen), in qualità di fondatrice, è il perno attorno a cui ruota la comunità – viene talvolta chiamata “Mother Superior” in tono semiserio, pur senza alcun riconoscimento ecclesiale. Il gruppo non adotta una gerarchia formale rigida; tuttavia, Kate dirige le operazioni aziendali e spirituali, coadiuvata dalle sorelle più anziane in esperienza. Le decisioni importanti (come espansioni in nuovi territori o cambi di strategia commerciale) passano dal suo vaglio, ma il lavoro quotidiano è suddiviso in maniera collaborativa tra le consorelle.
La sede principale, chiamata affettuosamente “Mother House” o “Mother Farm”, si trova nella contea di Merced (California centrale). Qui sorge una piccola fattoria con abitazione annessa, dove risiede il nucleo stabile del collettivo. Le condizioni di vita ricordano quelle di un convento rurale: più persone sotto lo stesso tetto, pasti condivisi e routine comunitarie. Secondo un reportage di Rolling Stone, nella casa madre vivono stabilmente circa 4-5 donne, mentre altre sorelle abitano poco lontano e si recano alla fattoria per lavorare. Alcune hanno famiglie: ad esempio Sister Kass, poco più che ventenne, vive fuori dalla proprietà con i suoi due bambini e il compagno (chiamato Brother Rudy, che funge da responsabile delle coltivazioni). Ciò illustra come le Sisters of the Valley non richiedano un isolamento totale dal mondo: le aderenti possono avere coniugi, figli e vite personali, conciliandole con l’appartenenza al collettivo.
La giornata tipo nella fattoria segue un equilibrio tra lavoro secolare e momenti spirituali. Al mattino, dopo la colazione, le sorelle possono riunirsi per una breve preghiera o meditazione, chiedendo benedizioni sul lavoro del giorno. Dopodiché indossano le loro uniformi da lavoro (che consistono nell’abito da suora adattato per la campagna: abiti semplici, spesso blu o grigi, con velo bianco) e si dedicano alle mansioni: cura delle piante, preparazione dei composti, risposta alle email dei clienti, confezionamento pacchi e così via. Non esistono uffici nel senso tradizionale: la cucina funge anche da laboratorio dove si imbottigliano tinture, il garage è stato convertito in serra per ospitare fino a 12 piante (il massimo consentito per uso personale dalla legge locale), e il salotto può trasformarsi in magazzino per le scorte. Nel tardo pomeriggio o la sera si svolgono talvolta cerimonie – ad esempio il circolo di luna piena intorno al fuoco con canti e ringraziamenti – a cui partecipano anche eventuali ospiti o membri esterni in visita.
Quanto alla struttura economica, la Sisters of the Valley è registrata come piccola impresa (non come organizzazione religiosa). Le consorelle sono in pratica socia-lavoratrici o dipendenti stipendiati. Sister Kate insiste molto su questo punto: ogni sorella deve avere una propria indipendenza economica. Alcune percepiscono un salario fisso, altre – specie se coinvolte in capitoli distanti – funzionano a commissione sulle vendite nella propria area. Ad esempio, Sister Camilla in Messico coordina la produzione locale e distribuisce i prodotti, trasferendo parte dei proventi alla casa madre per coprire costi e rifornimenti, ma trattenendo una quota per sostenere il nascente capitolo messicano. Questo modello decentrato consente di adattarsi ai vari contesti: in Messico, dove le leggi non permettono ancora la vendita libera di CBD, le Sisters operano più come attiviste/educatrici in attesa di legalizzazione, coltivando segretamente qualche pianta su un tetto e distribuendo conoscenze oltre che prodotti. In Nuova Zelanda, Sister Maria tentò di fondare un capitolo durante il referendum sulla cannabis, ma il fallimento della consultazione (che ha mantenuto illegale la cannabis lì) ha rallentato il progetto. Nonostante ciò, Sister Maria si è trasferita in California nel 2022 per contribuire alla fattoria, segno che la struttura rimane flessibile: le sorelle possono migrare dove il collettivo ha più bisogno o possibilità di operare.
Interessante è anche la presenza dei “brothers” (fratelli). Pur essendo un ordine prevalentemente femminile, le Sisters of the Valley ammettono collaboratori maschi che condividano la missione. Questi fratelli ricoprono spesso ruoli tecnici o di supporto, ad esempio nell’agricoltura (coltivatori, addetti alla sicurezza) o nella logistica. Non indossano il velo, ma talvolta un semplice abito da lavoro. Brother Rudy, ad esempio, gestisce le coltivazioni e la manutenzione nella fattoria di Merced. Complessivamente, nel 2021 si contavano 8 brothers affiliati in varie parti del mondo. La struttura inclusiva del gruppo permette così anche a uomini di partecipare, purché rispettino l’autorità spirituale delle sorelle e gli stessi valori di rispetto per la natura e servizio al prossimo.
In sintesi, l’organizzazione interna delle Sisters of the Valley mescola elementi da convento femminile (vita in comune, abiti uguali, rituali condivisi) con caratteristiche da cooperativa moderna (assenza di gerarchie rigide, ripartizione degli utili, apertura a membri esterni su base lavorativa). Non esiste un noviziato formale, ma chi desidera diventare Sister deve innanzitutto dimostrare impegno nella causa e affinità con lo stile di vita del collettivo. Sister Kate spesso racconta di aver accolto donne rimaste affascinate dalla loro pagina Facebook, presentatesi alla porta pronte a “lavorare gratis” pur di imparare, anche se poi lei preferisce sempre trovare un modo di retribuirle dignitosamente. Questa fusione di fraternità spirituale e struttura lavorativa fa delle Sisters of the Valley un esperimento sociale unico, dove l’ora et labora benedettino diventa “prega e coltiva” – con la cannabis al posto dei classici orti conventuali.
Il modello con cui operano le Sisters of the Valley è quello di una piccola impresa sociale fortemente ancorata a ideali comunitari. Da un lato, infatti, sono un’attività commerciale che vende prodotti e genera entrate; dall’altro sono un collettivo con scopi altruistici e uno stile di vita quasi missionario. Questo equilibrio si riflette in vari aspetti economici e sociali del loro funzionamento.
In termini strettamente economici, le Sisters of the Valley hanno dimostrato di poter essere autosufficienti. Partite con capitali minimi e molta manodopera volontaria, sono riuscite a costruire un marchio riconoscibile e una clientela fedele. Le vendite, sebbene contenute rispetto a quelle di grandi aziende del CBD, sono costantemente cresciute nei primi anni. Il giro d’affari annuale ha sfiorato il milione di dollari nel 2018. Successivamente, con l’aumento della concorrenza nel settore CBD, il volume si è assestato: recentemente si stima abbiano incassato oltre 500.000 dollari in un anno tramite il loro negozio online – un risultato comunque notevole per un’azienda artigianale di dimensioni familiari. Sister Kate ha rivelato che il loro store online attualmente guadagna all’incirca 60.000 dollari al mese in ricavi lordi, segno di una domanda costante per i loro prodotti di nicchia.
Va detto che la gestione finanziaria non è priva di sfide. Operando nel campo della cannabis (ancorché solo quella legale non-psicoattiva), le Sisters hanno dovuto far fronte ai classici problemi delle imprese “ad alto rischio”: conti bancari chiusi senza preavviso, difficoltà ad accettare pagamenti elettronici, fondi bloccati dai circuiti di carta di credito. Nel 2017, Sister Kate lamentava che circa 150.000 dollari dei loro fondi fossero congelati dai servizi di pagamento, costringendole a pianificare con molta prudenza le spese. Inoltre, un consistente pezzo dei ricavi viene reinvestito in sicurezza e infrastrutture: la loro tenuta ha dovuto dotarsi di recinzioni robuste, cani addestrati e persino di una guardia armata, poiché “questo è il Far West… non stiamo coltivando tarassaco” come ha detto scherzosamente una consorella, alludendo al rischio di furti o intrusioni legato alla coltivazione di cannabis. Tali costi riducono i margini di profitto, ma sono ritenuti necessari per proteggere la “missione preziosa e alquanto unica” delle Sisters.
Il modello di business vero e proprio è improntato alla filiera corta e diretta: dal produttore al consumatore senza intermediari. Vendendo online attraverso il proprio sito, il collettivo evita costi di distribuzione e può mantenere i prezzi accessibili per i clienti, pur garantendo salari alle sorelle. Hanno anche un programma di loyalty e accettano donazioni sul sito, mostrando come la comunità di sostenitori contribuisca volentieri alla causa, non solo acquistando prodotti ma anche finanziando progetti (come l’ampliamento della fattoria o borse di studio per nuove Sisters). Il reinvestimento degli utili ha permesso di creare posti di lavoro: il gruppo conta oggi una decina di occupati stabili nella farm californiana e ha generato opportunità per donne in altre regioni, incarnando l’obiettivo di “creare lavoro per donne appassionate di cannabis”. In questo senso, il modello delle Sisters of the Valley ha una forte impronta di economia solidale: l’azienda esiste non solo per arricchire i proprietari (infatti Sister Kate si assegna uno stipendio modesto, reinvestendo molto nella comunità), ma per sostenere un intero stile di vita e dare mezzi di sostentamento a chi ne fa parte.
Un altro aspetto peculiare è la strategia di marketing non convenzionale. Prive di accesso alla pubblicità tradizionale (a causa di politiche restrittive sui contenuti legati alla cannabis), le Sisters hanno puntato tutto sulla narrazione e sul rapporto diretto con il pubblico. Hanno curato un’immagine genuina, raccontando la propria storia e i propri valori attraverso i media e i social network, anziché tramite campagne pubblicitarie patinate. Questa trasparenza ha costruito fiducia: i clienti non comprano solo un olio al CBD, ma sposano simbolicamente una causa – quella di un gruppo di donne coraggiose che sfidano convenzioni per aiutare gli altri. Il risvolto è che gran parte della domanda è trainata dalla copertura mediatica: ogni volta che esce un articolo virale o un servizio TV su di loro, le vendite online impennano. Ad esempio, dopo un pezzo sul Guardian o un video della BBC, ricevono ordini da nuovi Paesi e richieste di informazioni da potenziali “sorelle” interessate ad aderire. Questo indica un modello di crescita organica, legato all’attenzione pubblica più che a investimenti pubblicitari – un modello sostenibile finché la storia delle Sisters conserva la sua capacità di ispirare.
Dal punto di vista sociale, il collettivo opera quasi come una piccola comune autosufficiente. Le entrate derivanti dall’attività commerciale finanziano non solo stipendi, ma anche progetti comunitari: miglioramento delle strutture abitative, acquisto di terreni, eventuale supporto a persone bisognose. Sebbene non abbiano obblighi di decima o carità imposti da una regola religiosa, le Sisters considerano parte integrante del loro scopo aiutare chi soffre. Una porzione dei ricavi viene dunque destinata a fornire prodotti gratuiti o scontati a malati gravi che non possono permetterseli (sul modello delle vecchie farmacie delle suore). Inoltre, quando possibile, sostengono iniziative locali di beneficenza legate alla salute o all’agricoltura sostenibile. Questo approccio rimanda ai principi dell’economia del dono e della mutua assistenza tipici sia delle comunità spirituali sia dei movimenti cooperativi laici.
In prospettiva, Sister Kate sogna di replicare il modello Sisters of the Valley su larga scala: “da qui ai prossimi 20 anni vogliamo avere nostre enclave in ogni città e provincia” ha dichiarato, immaginando cellule autonome di sorelle coltivatrici diffuse ovunque. Questa visione ricorda un franchising, ma con un’impronta ideologica anziché di mero profitto. Ogni enclave sarebbe economicamente indipendente, radicata nella comunità locale, e al tempo stesso parte di una rete globale unita dagli stessi valori. Finora, la realizzazione di questa visione è agli inizi – con il capitolo messicano e qualche affiliata oltreoceano – ma il fatto che se ne parli dimostra l’ambizione di creare un movimento internazionale oltre che un business. Del resto, già oggi le Sisters of the Valley si descrivono come “organizzazione internazionale”, con membri che vanno dalla ventenne idealista alla sessantenne ex manager, dal cuore agricolo della California ai villaggi del Messico centrale.
In conclusione, le Sisters of the Valley rappresentano un caso affascinante di innovazione socio-economica: un collettivo che fonde misticismo e commercio, tradizione erboristica e marketing digitale, emancipazione femminile e cultura cannabis. Il loro successo moderato ma reale dimostra che esiste uno spazio dove spiritualità, imprenditorialità e impegno sociale possono coesistere in armonia. Come le antiche sorelle erboriste che nei conventi medievali preparavano rimedi per il popolo, le Sisters of the Valley del XXI secolo hanno riscoperto (e riadattato) quel ruolo, diventando sia curatrici dell’anima e del corpo, sia astute imprenditrici di se stesse. Il loro viaggio, iniziato tra lo scetticismo generale, ha avuto un impatto culturale non trascurabile: hanno contribuito a destigmatizzare la cannabis agli occhi di molti, hanno fornito un modello di comunità spirituale contemporanea e hanno rilanciato l’idea che anche fuori dagli schemi convenzionali si possa costruire qualcosa di positivo per la società. E, cosa non da poco, hanno dimostrato che a volte un velo e un po’ di coraggio possono far miracoli nel farci ascoltare dal mondo.
Fonti:
- Corrine Ciani, Rolling Stone – “Meet the Weed Nuns: Our Ladies of the Perpetual High” (2021).
- Omar Younis, Reuters/Sojourners – “California Nuns on a Mission to Heal with Cannabis” (25 aprile 2017).
- Canapando.net – Le suore che coltivano marijuana: le Sisters of the Valley (27 aprile 2022).
- Lucy Nicholson, Reuters – “The ‘weed nuns’ of California” (20 aprile 2017).
- Raquel Cunha, Reuters/Al Jazeera – Mexico’s weed ‘nuns’ taking the plant back from the narcos (1 gennaio 2024).
- Redazione DolceVita – Breaking Habits – Robert Ryan (15 agosto 2018).